LA CONTRADDIZIONE PERICOLOSA TRA CAPITALE E NATURA

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di Giulio Sapori

David Harvey, interprete originale del pensiero di Marx, nel suo libro Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo (Feltrinelli, Milano 2014) analizza il capitale cercando le potenzialità emancipatorie presenti nelle sue molteplici contraddizioni.
Iniziamo chiarendo due termini: primo, la contraddizione non è qui intesa in senso aristotelico, per cui due enunciati contrastano in maniera tale da non poter essere entrambi veri (es: “tutti i merli sono neri” contraddice l'enunciato “alcuni merli sono bianchi”), ma è intesa in senso dinamico, come incontro-scontro di forze, tensione tra esigenze, che si presentano come opposte (es. tempo di lavoro/tempo libero). Queste contraddizioni non si risolvono logicamente ma si vivono e si affrontano nella prassi.
Secondo, il capitale non è il capitalismo ma è il suo motore economico. In altri termini, capitalismo è una formazione sociale complessa, in cui i processi di circolazione/accumulazione di capitale sono egemonici nel plasmare l'economia, la società e il pensiero. Di capitalismi ve ne sono diversi, ma il motore (il capitale) è sempre lo stesso.

La contraddizione su cui vorremmo qui soffermarci è quella tra capitale e natura (nel libro, la numero 16).
Insieme a quella della crescita esponenziale e dell’alienazione universale, questa contraddizione viene ritenuta tra le più “pericolose” per il funzionamento attuale del capitale.
All’autore non convincono molto le interpretazioni moniste, le quali concepiscono una sola contraddizione fondamentale (es. quella tra capitale e lavoro), perché troppo semplicistiche e deterministiche. Il capitale si è dimostrato, storicamente, in grado di superare le crisi che lo inceppavano. Di più: le crisi sono, per esso, un momento di “distruzione creatrice”: si abbandona il vecchio e si costruisce il nuovo.

In molti, ormai, sono coscienti dei problemi ecologici del pianeta, pochi però sanno legare il sistema ecologico a quello socio-economico. Il capitale, per Harvey, andrebbe analizzato come “sistema ecologico” che vive, si evolve e muore, un sistema che si sta sempre più sovrapponendo al mondo-della-vita, riducendolo a sé e alla sua unidimensionalità.
La natura quindi non è intesa, semplicisticamente, come un ‘fuori’ ma è “inserita all’interno della circolazione e dell’accumulazione di capitale” (p. 246). Il tempo di maturazione di una pianta o di un frutto è qualcosa di 'naturale' e, allo stesso tempo, di commerciale. Non si coltiva per mangiare ma per vendere. Per l'autore questa perversione della produzione è il problema. Ed è vero, però non può non vedere la differenza fra l'impatto umano e quello del resto del vivente. L'uomo, al pari di tutti gli organismi viventi, modifica il luogo in cui vive. Tuttavia, questa modifica nel resto del mondo vivente non è ‘riduzionista’: la vita, come abbiamo già scritto, è catalitica, sostiene altra vita. L’impatto umano, invece, è stato ed è sempre più riduzionista, quindi mortifero. E questo si può dire, a maggior ragione, quando la società umana è mossa dal capitale, cioè da quel motore che, per poter funzionare, ha bisogno di combustibile costante di merce e denaro.

In una società di tal fatta, i problemi ambientali localizzati sono funzionali all’espansione del capitale, perché trasformabili in “big business” (p. 247). La tanto sbandierata green economy è principalmente questo: volontà di profitto in una situazione di crisi ecologica.
In questi casi, la colpa è scaricata sulla natura ‘matrigna’ e la salvezza individuata nelle nuove tecnologie.
In una società guidata dal capitale, il valore di qualcosa è sempre sottomesso alla volontà di profitto. In una tale organizzazione sociale anche i disastri ambientali sono benvenuti poiché creano ampie opportunità di profitto, una manna per il cosiddetto "capitalismo dei disastri" (p. 248).

In questa società, la rappresentazione della natura egemonica, sostenuta anche da tanti discorsi 'scientifici', è quella che la concepisce come insieme di risorse utilizzabili: “La natura viene vista necessariamente dal capitale come niente altro che un grande magazzino di potenziali valori d’uso - processi e cose – che possono essere usati direttamente o indirettamente (attraverso le tecnologie) nella produzione e nella realizzazione di valori merce. La natura è una grande stazione di rifornimento (per citare Heidegger) e i valori d’uso naturali sono monetizzati, capitalizzati, commercializzati e scambiati come merci. Solo a quel punto sul mondo può essere imposta la razionalità economica del capitale. La natura è ripartita e suddivisa in forma di diritti di proprietà privata garantiti dallo Stato. La proprietà privata comporta la recinsione dei beni comuni della natura” (p. 249).

Con questi passaggi, il capitale produce il proprio ecosistema. Ma non tutto fila liscio perché “la concezione che il capitale ha della natura, come pura merce oggettivata, non è priva di contestazioni. Ne segue una battaglia continua fra come il capitale concettualizza e usa la relazione metabolica con la natura per costruire il proprio ecosistema e i diversi concetti e atteggiamenti verso la natura diffusi nella società civile e persino nell’apparato statale. Il capitale, purtroppo, non può mutare il modo in cui suddivide in pezzi la natura sotto forma di merce e come diritti di proprietà privata. Sfidarlo significa sfidare il funzionamento del motore economico del capitalismo stesso e negare l’applicabilità della razionalità economica del capitale alla vita sociale. Per questo il  movimento ambientalista , quando va oltre una politica puramente cosmetica o migliorativa, deve diventare anticapitale” (p. 251).

Noi sappiamo cosa fare, in linea generale, per mitigare il nostro impatto sull’ecosistema, per liberarlo dall'usura, “il problema sono la tracotanza e gli interessi di certe fazioni del capitale (e di certi governi e apparati degli Stati capitalistici) che hanno il potere di contestare, rovinare e prevenire gli interventi che minacciano la loro redditività, la loro posizione competitiva e il loro potere economico” (p. 255).
Ci sarebbe anche bisogno di una nuova teoria del valore, non meramente economica. Attualmente, infatti, “il valore monetario imposto al flusso di servizi che la natura fornisce al capitale è arbitrario. Periodicamente porta a sfruttamenti indiscriminati di valori d’uso disponibili, al punto di produrre un collasso ecologico” (p. 255). La razionalità capitalistica impone che, una volta usato e usurato una risorsa, ci si sposti altrove, solitamente in paesi più poveri e indifesi. Una logica parassitaria e, a lungo andare, disastrosa.
Pur criticando i ‘catastrofisti’, Harvey riconosce che “sotto la pressione della continua crescita esponenziale, il degrado con tutta probabilità accelererà. Non escludo che in questo processo vi saranno momenti quasi apocalittici” (p. 253).
La posizione che occorre assumere, allora, è di riconoscere che c’è poco di naturale nei disastri naturali. La maggior parte di essi è, infatti, imputabile all’attività umana, un’attività modificabile. Perché, però, risulta così difficile andare contro gli interessi capitalistici?

Il motivo di questa semi-indifferenza è che la società, oltre a produrre merci, ‘produce’ soggetti adatti ad essa. E come in agricoltura si coltivano poche, funzionali, piante, così in società si formano pochi, funzionali, tipi umani. La diversità va uniformata. “Nel suo modo disastroso di avvicinare la pura bellezza e la diversità infinita di un mondo naturale (di cui siamo parte), mette in  mostra le sue qualità estremamente grezze. Se la natura è feconda, dedita alla creazione perpetua di novità, il capitale fa a pezzi quella novità e riassembla i frammenti in tecnologia pura. Il capitale porta in sé una definizione inaridente non solo della diversità del mondo naturale ma anche della tremenda potenzialità della natura umana di evolvere liberamente le proprie capacità e i propri poteri. La relazione del capitale con la natura e la natura umana è alienante all’estremo” (pp. 259-260).

La sua logica, come abbiamo visto, è  colonizzatrice e riduzionista: “privatizzare, mercificare, monetizzare e commercializzare tutti gli aspetti possibili della natura”, impedendo la possibilità di un diverso modo di essere natura e, quindi, uomini.
Contro la mercificazione della natura, umana e non, occorre reagire. Unire le lotte perché “l’alienazione della natura è alienazione della nostra stessa specie. Questo libera uno spirito di rivolta in cui parole come dignità, rispetto, compassione, cura e amore diventano slogan rivoluzionari, mentre i valori della verità e della bellezza sostituiscono il calcolo freddo del lavoro sociale” (p. 261).
(Qui sotto proponiamo l'epilogo del libro, con delle idee per la prassi. Piccola nota: da parte mia, non mi ritrovo nella prospettiva antropocentrica propria dell'autore, ma ho trovato il libro molto valido per spunti di riflessione e d'azione)

"Ecco alcuni mandati - derivati dalle diciassette contraddizioni - per inquadrare e, si spera, ravvivare la prassi politica. Dobbiamo avere come traguardo un mondo in cui:

1. L'offerta diretta di valori d'uso adeguati per tutti (casa, istruzione, sicurezza alimentare, ecc.) ha la precedenza sulla loro offerta attraverso un sistema di mercato orientato alla massimizzazione dei profitti, che concentra i valori di scambio nelle mani di pochi privati e distribuisce i beni sulla base della possibilità di pagarli.

2. Viene creato uno strumento di scambio che facilita la circolazione di beni e servizi ma limita o esclude la capacità dei singoli privati di accumulare denaro come forma di potere sociale.

3. L'opposizione fra proprietà privata e potere statale è sostituita il più possibile da regimi di diritti comuni (con particolare enfasi sulla conoscenza umana e la terra come i beni comuni più importanti che abbiamo); creazione, gestione e protezione di tali regimi stanno nelle mani di raggruppamenti e associazioni popolari.

4. L'appropriazione di potere sociale da parte di privati non solo è impedita da barriere economiche e sociali ma viene guardata ovunque come una devianza patologica.

5. L'opposizione di classe fra capitale e lavoro si dissolve e i produttori associati decidono liberamente che cosa, come e quando produrranno, in collaborazione con altre associazioni relative al soddisfacimento di bisogni sociali comuni.

6. La vita quotidiana viene rallentata (gli spostamenti saranno piacevolmente tranquilli) per massimizzare il tempo a disposizione per le attività libere condotte in un ambiente stabile e ben conservato, protetto da episodi drammatici di distruzione creatrice.

7. Associazioni di persone valutano e comunicano le une alle altre i rispettivi bisogni sociali, come base per le decisioni di produzione (sul breve periodo, gli aspetti della realizzazione dominano le decisioni di produzione).

8. Si creano nuove tecnologie e nuove forme di organizzazione che alleviano l'onere di tutte le forme di lavoro sociale, annullano le distinzioni non necessarie nelle divisioni tecniche del lavoro, lasciano a disposizione tempo per attività libere, individuali e collettive, e diminuiscono l'impronta ecologica delle attività umane.

9. Le divisioni tecniche del lavoro sono ridotte attraverso l'uso di automazione, robotizzazione e intelligenza artificiale. Le divisioni tecniche rimanenti, ritenute essenziali, sono il più possibile dissociate dalle divisioni sociali del lavoro. Le funzioni amministrative, di guida e di controllo debbono ruotare fra gli individui della popolazione nel suo complesso. Siamo liberati dal governo degli esperti.

10. Un potere monopolistico e centralizzato sull'uso dei mezzi di produzione è attribuito ad associazioni popolari attraverso le quali vengono mobilitate le capacità competitive decentrate di individui e gruppi sociali, per produrre differenziazioni nelle innovazioni tecniche, sociali, culturali e di stile di vita.

11. Esiste la massima diversificazione possibile dei modi di vivere e di essere, delle relazioni sociali e delle relazioni con la natura, delle abitudini culturali e delle convinzioni nell'ambito di associazioni territoriali, comuni e collettivi. È garantito il libero spostamento geografico degli individui, senza ostacoli ma ordinato, entro i territori e fra le comuni. I rappresentanti delle associazioni si riuniscono regolarmente per valutare, pianificare e intraprendere attività comuni e trattare i problemi comuni a scale diverse: bioregionale, continentale e globale.

12. Tutte le disuguaglianze materiali sono abolite, tranne quelle implicite nel principio 'da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni'.

13. La distinzione fra lavoro necessario compiuto per altri distanti e lavoro intrapreso nella riproduzione di sé, dell'ambiente domestico e della comune viene gradualmente cancellata, in modo che il lavoro sociale diventi incorporato nel lavoro domestico e comune e il lavoro domestico e comune diventi la forma primaria di lavoro sociale non alienato e non monetizzato.

14. A tutti devono essere garantiti alla pari istruzione, assistenza sanitaria, casa, sicurezza alimentare, beni fondamentali e accesso aperto ai trasporti, così da garantire la base materiale della libertà dai bisogni e la libertà di azione e movimento.

15. L'economia converge a una crescita zero (ma con spazio per sviluppi geografici disomogenei) in un mondo in cui il massimo sviluppo possibile delle capacità e dei poteri, individuali e collettivi, e la ricerca senza fine di novità prevalgono come norme sociali per debellare la mania della crescita composta perpetua.

16. L'appropriazione e la produzione di forze naturali per i bisogni umani deve procedere speditamente, ma con il massimo riguardo per la protezione degli ecosistemi, prestando grandissima attenzione al riciclaggio di sostanze nutritive, energia e materia fisica ai siti da cui provengono, e con un senso schiacciante di reincanto per la bellezza del mondo naturale, di cui siamo parte e a cui possiamo contribuire attraverso le nostre opere.

17. Emergono esseri umani non alienati e persone creative non alienate, armati di un nuovo senso di fiducia come esseri individuali e collettivi. Dall'esperienza di relazioni sociali intime, strette liberamente, e dall'empatia per modi diversi di vivere e produrre, emergerà un mondo in cui ciascuno sarà considerato ugualmente meritevole di dignità e rispetto, anche se dovessero esserci conflitti acuti sulla definizione adeguata della buona vita. Questo mondo sociale evolverà continuamente attraverso rivoluzioni permanenti e continue delle capacità e dei poteri umani. La ricerca perpetua di novità continua.

Nessuno di questi mandati, non ci sarebbe neanche bisogno di dirlo, supera o annulla l'importanza di muovere guerra a tutte le altre forme di discriminazione, oppressione e repressione violenta nel capitalismo nel suo complesso. Analogamente, nessuna di queste altre lotte deve superare o annullare quella contro il capitale e le sue contraddizioni. Alleanze d'interessi cercansi, chiaramente."  (pp. 290-3)

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