EDUCARE CON GLI ANIMALI. RECENSIONE AL LIBRO DI RAFFAELE MANTEGAZZA

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di Giulio Sapori

Da tempi antichi gli animali sono stati utilizzati in ambito educativo come metafore del comportamento umano: rappresentazioni di vizi e virtù degli uomini, da elogiare o condannare.

Raffaele Mantegazza, filosofo e pedagogista, professore di pedagogia all’Università Milano-Bicocca, nel libro Educare con gli animali (Meltemi, 2002), fa un’operazione diversa: quella di considerare i vari animali nella loro materialità, e più precisamente di "considerare la relazione specifica che lega l’uomo e la donna a specifici animali".

Cosa hanno da insegnarci gli animali?
Innanzitutto che non esistono gli animali, universale astratto, ma singolarità, con cui abbiamo un rapporto uno-a-uno. Singolarità che, chi più chi meno, ci hanno segnato, non solo come singoli ma anche come collettività.
Se insegnare significa ‘lasciare un segno’, gli animali possono essere considerati importantissimi insegnanti.

Attualmente, nel tempo dello strapotere della specie sapiens, questi nostri “compagni nell’avventura terrena” si configurano sempre più come fondamentale “banco di prova nel rapporto con l’altro-da-noi”.

Educare all’animalità significa, infatti, educare al rispetto dell’altro, del diverso. Con rispetto intendiamo, innanzitutto, quel lasciar-essere-l’altro-come-altro, affinché possa accadere un vero rapporto. Questo sarebbe il compito di una pedagogia materialista, creaturale ed ecologica”.
 

Il libro è suddiviso in tante piccole ‘schede’ di animali che vanno a formare una sorta di fenomenologia della relazione.

Il primo animale-relazione non può che essere il compagno di vita di molti: il cane, maestro di fedeltà.
La sua presenza ci abitua, quotidianamente, a far spazio all’alterità e ad averne cura. Crescere a suo fianco abitua a "prendersi cura del creato" e a rispettare le promesse fatte, prima di tutto quella di non tradire e non abbandonare mai chi confida in noi, nel nostro affetto e nella nostra protezione.

Il gatto, invece, nella sua semi-indifferenza, lascia che il mondo sia. Insegna il pudore, la solitudine e la resistenza al potere. La sua presenza-assenza induce ad una “relativizzazione del nostro ascolto e del nostro sguardo, che significa anche il venir meno del nostro delirio di onnipotenza e onnipresenza” (p. 21).

Molto belle sono le pagine dedicate al pulcino e alla tenerezza, la quale viene intesa come “una risposta al richiamo della natura; una risposta possibile e non automatica” (p. 29).

In quanto esperienza fisica, la tenerezza trova nella carezza il gesto che più la richiama. “Modalità privilegiata della trasmissione di affetto, la carezza è forse in origine un colpo trattenuto: è la possibilità di spogliare il gesto della violenza che altrimenti l’abiterebbe, la ricerca di una nuova dolcezza al di sotto dell’aggressività socialmente insita nel nostro corpo; è il gesto della fiducia che scioglie la rabbia, del pugno che si apre perché crede e cede alla non aggressività dell’altro” (p. 30).

La tenerezza realizza questa possibilità di un toccare libero dalle dimensioni del dominio e della violenza e contribuisce forse a superare il tabù occidentale sul corpo e soprattutto sulla dimensione del toccare l’altro”(p.31). Toccare decentra: chi tocca chi? Il soggetto viene colto dall’ebrezza di non essere uno spirito linguistico che vaga nel mondo virtuale, ma di essere carne, pelle e peli.
La carezza allenta e rende porose le barriere mentali tra dentro e fuori, tra io e mondo, richiamandoci al nostro essere-nel-mondo.

La tenerezza non è da confondere con il sentimentalismo melenso, attitudine antitetico-solidale al cinismo trendy, ma riguarda un saperci-fare con la vulnerabilità, con la possibilità di far male e di subirlo. Significa aprirsi all’incontro fisico, alla vicinanza disarmata.
E' una risposta che si oppone a quella coercizione alla sopraffazione che spesso struttura le relazioni con il diverso, e che va combattuta in maniera decisa.

Come il pulcino chiama la tenerezza, così il bove trascinatore di aratri richiama l’immagine del dominio.
Cosa si intende per dominio? Si intende quella precisa forma di potere che non necessita di alcuna legittimazione, “concretizzazione del nudo esercizio della violenza e dell’ asservimento” (p. 35). Il dominio, in sintesi, è un rapporto univoco dove uno comanda, e l'altro ubbidisce.
Diverso dal dominio è l’addomesticamento-coltivazione della natura, in cui si rispettano i tempi e i ritmi dell’altro, e ci si mette in gioco nella relazione: un rapporto io-tu, piuttosto che io-esso.

La scimmia, invece, ci perturba come immagine di ciò che eravamo e che possiamo essere: memoria e monito.
Ciò che ci differenzia da essa è l’importanza preponderante che la cultura ha avuto per noi, nostro modo di essere natura.

Il problema, scrive l'autore, non è la cultura in sé ma il tipo di cultura: se, come noi occidentali, concepiamo la cultura come il sovrano che deve sottomettere il suddito-Natura, ci comporteremo in questo modo, minando proprio le basi della nostra possibilità di essere. Per questo, come hanno scritto Horkheimer e Adorno, ricordare la Natura è “un’attività resistenziale” (p. 41) che si oppone al soffocamento che sta producendo la ragione strumentale.

Animale da sempre rappresentato come bestia crudele, il lupo si configura come presenza Unheimlich, inquietante, nella società umana, tenendo insieme la mitezza (del cane) e l’indomita selvatichezza. La ‘bestia’, nel ‘900, è stata portata quasi all’estinzione dall’uomo civilizzato, quell’uomo che si pone come giudice e benevolo ordinatore del mondo.

Da qui, sarebbe il caso di indagare la crudeltà come possibilità concreta di far del male agli altri. Un'attitudine che parla più di noi civilizzati che delle ‘bestie’ selvatiche. In noi è presente una forma di crudeltà nuova, mai comparsa prima: la crudeltà del pensiero e della libertà come arbitrio.

Il pensiero come male, il pensiero come attività crudele, si manifesta laddove il concetto taglia i ponti con il desiderio e con la possibilità di un’integrazione nonviolenta tra uomo e natura” (p. 54). Il pensiero deve fare i conti con se stesso, in quanto vettore di attività distruttive e sofferenza, iniziando a porsi sempre più in ascolto delle lacerazioni del mondo.

Come si può vedere, l’autore non descrive gli animali come oggetti separati dal soggetto umano ma come singolarità-in-relazione.
Quello che rimane, al termine del libro, è proprio la necessità di un ripensamento di queste interazioni.

L'autore ci lascia intendere che una vera educazione ecologica non deve riguardare soltanto le buone pratiche del cittadino responsabile (raccolta differenziata, consumo energetico, ecc.) ma dovrebbe innanzitutto suscitare nei soggetti “una sorta di ascolto restituente nei confronti della natura” (p. 104), traducendo i suoi numerosi lamenti in linguaggio comprensibile ai nostri simili.

Viene ripensata anche la soggettività in chiave aperta ma non fiacca e gelatinosa, una soggettività che non si imponga al mondo come un signore si impone al suo servo ma che, materialisticamente, sappia "restituire, almeno in parte, alla natura ciò che le ha tolto: non attraverso la pseudo-negazione di sé in posizioni magiche ma attraverso la consapevole lotta all'inquinamento, alla vivisezione, ai circhi e alla caccia, realizzando quel sacrificio di sé che da millenni la natura attende invano; non auto-annichilendosi per finta o per moda ma estirpando realmente da sé il gene della violenza ecocida" (p. 81).

La contrapposizione, non si stanca di ripeterlo, non è tra curarsi degli animali o curarsi degli uomini ma, visto che anche l'uomo è un animale, tra l’appoggiare strutture di dominio o favorire quelle di co-appartenenza: “la pietas per l’animale è una spia, un’arma, per poter giungere ad altre liberazioni; nessuna liberazione parziale è priva di senso nella lotta per ridare senso al mondo” (p. 100).

Le lotte di liberazione vanno unite contro la ragione strumentale, soggettiva, autosufficiente, biecamente utilitarista che fa strage di uomini, animali e piante.
Deve essere chiaro che la lotta per la liberazione della natura è la lotta per la liberazione dell’umanità; solo unificando le lotte parziali, ma non rendendole per questo meno puntuali e meno precise, è possibile una naturalizzazione dell’uomo che sia anche umanizzazione della natura” (p. 101).

Educare significa resistere, opporsi allo sfruttamento e alla violenza sul mondo per dargli un senso nuovo che lasci alle relazioni con l’altro lo spazio per fiorire e prosperare.

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