WILDLIFE ECONOMY. DECOSTRUZIONE DEL LIBRO DI BERNARDINO RAGNI

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di Giulio Sapori


Il mio interessamento al libro Wildlife Economy. Nuovo Paleolitico (Aracne Editrice 2015), scritto dal biologo ambientale Bernardino Ragni, è nato a seguito di una visione di una locandina che riguardava una sua presentazione. Essa riportava: "Wildlife Economy - Nuovo Paleolitico ovvero mettere a frutto una materia prima abbondante e rinnovabile nel quadro economico dell'Umbria".

Quelle parole, materia prima abbondante e rinnovabile, hanno suscitato in me un leggero malessere che mi ha spinto, anche controvoglia, a comprare e leggere il libro.

Chiariamo subito quale obiettivo abbia la Wildlife Economy (componente centrale del progetto Nuovo Paleolitico): “trarre beni e servizi, reddito e occupazione, dall’uso sostenibile delle popolazioni di fauna selvatica naturale (wildlife) viventi negli spazi rurali”. Come usare la fauna? Oltre alla produzione alimentare, l’uso “si espande alle attività: venatoria, naturalistica, culturale, scientifica, didattica, educativa, formativa, ricreativa, hobbistica, turistica, trofeistica, oggettistica, dei pellami, et cetera. Tutti usi capaci di generare reddito e occupazione”. Questo è il succo del progetto. La finalità del tutto è essenzialmente questa: generare reddito e occupazione, che sappiamo essere vere parole-civetta per politici e amministratori, soprattutto in tempi di crisi economica. Questo è l’orizzonte aperto dalla W.E.: cacciare non tanto per sport e neanche per la ‘salvaguardia dell’ambiente’ come spesso retoricamente ci dicono, ma come attività fondamentalmente economica.

Qual è il significato della sigla Nuovo Paleolitico? L’uomo avrebbe vissuto due grandi rivoluzioni: la paleolitica (caccia e raccolta) e la neolitica (allevamento e agricoltura). Ora sarebbe giunto il tempo della Terza Rivoluzione (o quarta?): quella post-industriale (o neopaleolitica).
La sua novità sarebbe di andare contro lo slogan della 'crescita', e quindi di essere, per l’Autore, “eversivamente contro-natura”, addirittura “troppo contro-natura perché avvenga effettivamente”, in quanto tenderebbe ad un equilibrio e non ad una crescita indefinita (pag. 29). Così ‘contro-natura’ che la rivoluzione viene subito  stemperata in riforma, poiché ‘troppo eversiva’.

Questa stranezza del ‘contro-natura’ ce la chiarisce una favola, dove si narra di una piccola isola di cervi in cui arrivano (da dove non è dato saperlo…è una favola) un branco di lupi che prima sbrana i cervi, poi i lupi più deboli, e infine si estingue. La favola sopradetta è molto simile allo stato di natura hobbesiano: una narrazione finta funzionale alla teoria che si intende proporre, in questo caso la Wildlife Economy come salvezza razionale dalla naturale volontà distruttiva (e autodistruttiva) degli individui.

Sarebbe stato bello se la favola dell’isola fosse stata sostituita dalla storia delle tante isole che accusarono un’estinzione massiva ogni volta che vi sbarcò homo sapiens (dall’Australia, al Madagascar, alle Fiji, alla Nuova Zelanda, ecc.). Un episodio simile a quello narrato dalla favola si verificò nell’isola di Pasqua. Gli umani, arrivati nella lussureggiante isola intorno all’anno mille, la desertificarono, portarono all’estinzione le poche specie terrestri, arrivando all’antropofagia e alla loro semi-estinzione. Una storia a cui si potrebbe contrapporre quella delle isole Galapagos, ridondanti di vita ma in equilibrio. Questo confronto sarebbe stato utile per capire lo ‘stato d’eccezione’ dell’animale umano nel suo rapporto con l’ambiente. Perché si è preferita la favola alla storia? In questo modo non si fa passare un’eccezione come regola? L’intento sembra questo.

Il comportamento secondo-natura, per Ragni, sarebbe: “ottieni il massimo vantaggio con il minimo sforzo in ogni situazione della tua esistenza, nel luogo e nel tempo in cui essa si svolge”. Questa è la Legge che regolerebbe il Creato. Nonostante siamo abituati a pensare individualisticamente, questa ‘Legge’ ci porta ad una distorta comprensione di ciò che regola la Natura: pone, come la favola, l’attenzione su l’individuo, naturalizzazione dell’homo oeconomicus, a discapito dell’ecosistema, unità complessa ed equilibrata di individui-in-relazione. L’ecosistema, vero protagonista della storia della vita, diventa componente meramente sfondale, teatro nel quale l’individuo utilitarista tende a massimizzare i propri vantaggi. Più che ‘Legge del Creato’, quella descritta dall’Autore è ideologia individualista naturalizzata.
L’idea, per nulla nuova, che intende avallare la Wildlife Economy è il mondo come  fondo di risorse a disposizione dell’individuo. L’uomo ‘sapiente’ ha il compito di mantenere le risorse (biotiche e abiotiche), dandogli il tempo di rinnovarsi. Le due attività da portare avanti sono conservazione (far si che si mantengano le risorse) e sostenibilità (raccolta ‘razionale’ di beni e servizi). L’Uomo è il perno intorno a cui tutto gira, amministratore della Natura-Industria. Un’ industria che produce costantemente ‘biomassa animale’, ‘materie prime’ (fauna selvatica) gratuitamente; compito umano è ‘prelevare’ questa biomassa, cercando di mantenere le popolazioni costanti.

Come prelevare in modo sostenibile? Ragni dice: mantenendo il prelevamento al di sotto della carrying capacity. Questo concetto designa il valore massimo di individui supportato dall'ambiente, ed illustra la legge omeostatica che regola gli ecosistemi, rendendo ambiente e animali un unico tessuto differenziato ed equilibrato. Ragni lo risignifica come capacità ‘sopportante’ della popolazione animale, limite da non superare nella “prelevazione di biomassa animale” affinché non si instauri un deficit irreversibile (pag. 42). Quello compiuto dall’Autore è un interessante slittamento di significato: da spontaneo equilibrio tra popolazioni e ambiente (concetto ecocentrico), la carrying capacity diviene un concetto antropocentrico, in quanto limite dell’attività antropica rispetto alla ‘prelevazione’ di fauna, cioè quante ‘risorse’ possiamo ammazzare…ups prelevare… senza intaccare la loro ‘rinnovabilità’, ed ottenere, in questo modo, una ‘rendita continua massima’.
Lo slittamento di significato si può comprendere se consideriamo la specie umana come parte, tra le altre, dell’ambiente. Ma è così? Quanto ad impatto sugli ecosistemi, decisamente no.
Una delle mancanze più vistose del libro è proprio questa: dove siamo noi? Chi siamo? Mentre infatti le altre specie hanno limiti ecosistemici ‘automatici’ (carrynig capacity, appunto), l’uomo è l’animale che può distruggere un ecosistema, andando oltre la sua capacità portante. Di questo, nel libro, ovviamente non si parla.
Oltretutto la quantità di specie ‘prelevabili’, invece che a censimenti accurati, per risparmiare soldi, è lasciata ad una ‘gestione progressiva’: un calcolo approssimativo la cui giustezza sarà verificata l’anno successivo al ‘prelievo’.  

Le rivoluzioni sono tali quando ci danno nuovi occhi, aprendoci un mondo. Lo sguardo proposto in questo libro non è affatto nuovo: è uno sguardo economico, figlio di un pensiero strumentale e reificante, più industriale che paleolitico. Gli animali non ci sono (se non come disegni). La scena è occupata dai concetti mortiferi di ‘risorsa’, ‘materia prima’, ‘biomassa animale’, ‘proteine animali’, ‘prelevazione’: vera e propria desensibilizzazione linguistica, funzionale ad una desensibilizzazione della prassi.
L’unica lezione che avremmo dovuto imparare dal ‘900 non è stata minimamente colta: la ragione anestetizzata produce mostri. Le ‘risorse’ e le ‘materie prime’ chiamano solo l’utilizzo, non il rispetto. Non è semplice ammazzare un nostro simile, così terrorizzato al punto da ‘suicidarsi’ (come raccontato dal guardiacaccia Giancarlo Ferron in Ho visto piangere gli animali), per questo l’Altro va prima ingabbiato e ammazzato concettualmente.

Sostenibilità e conservazione sono concetti fondamentali della W.E., di cui ormai ogni proposta contemporanea si fa portabandiera. Concetti che giustificano ciò che l’economia vuole (vedi la ‘sostenibilità’ dell’olio di palma) e non scalfiscono minimamente l’antropologia padronale, principale causa dell’ecocidio in corso, rendendola solo più ‘sapiente’ ed efficiente: un dominio un po’ più eco-frendly, ma sempre dominio.
La Wildlife Economy è la conferma della logica parassitaria e vampiresca del capitalismo che cerca costantemente terre vergini da cui trarre profitto. Conferma e prosegue l’opera di burocratizzazione del mondo che vede in ogni anfratto risorse da sfruttare e intende razionalizzare la ridondanza lussureggiante della vita a favore dell’universo economico delle merci.

Gli ‘usi sostenibili’ della fauna esposti nel libro sono trentuno: 24 con ‘prelievo di biomassa animale’ (carne, trofei, divertimento, oggettistica ecc.) e 9 senza ‘prelievo’ (osservazione, didattica, turismo, ecc.). Sono previsti vari pacchetti da acquistare (es. ammazzamento+carcassa), a seconda dei gusti. Che si ammazzi o meno, il problema fondamentale rimane lo sguardo: l’unico animale buono è quello che si fa oggetto, che non ci ri-guarda perché è già morto nella rappresentazione che abbiamo di lui. La logica è la stessa dello zoo: si paga per vedere animali-oggetti. Poi, se paghi qualcosa in più, li puoi anche ‘prelevare’.

Il pensiero reificante dell’Autore viene proiettato in modo indebito nel Paleolitico, tempo in cui, secondo le ipotesi più accreditate, il rapporto tra comunità umana e resto del vivente si dava in modo paritario, non gerarchico (il paleontologo Bergounioux parla in proposito di cosmomorfismo). Non c’era separazione effettiva tra uomo e Natura. La caccia era una pratica di sussistenza e il mondo era tutto animato (dal cervo, al tuono, alla sorgente), irriducibile all’unidimensionalità astratta e falsamente neutrale del concetto di risorsa portata avanti in questo libro.

La Wildlife Economy si propone principalmente come riforma (economica) e rivalorizzazione dell’attività venatoria. Aumenta l’area di caccia, permettendola anche nei Parchi, preservando solo delle piccole ‘aree modello’ non soggette a pressione antropica. In questo modo “il cacciatore avrà un’area maggiore su cui esercitare serenamente la sua passione” (pag. 75). Un po’ di serenità ci vuole, soprattutto se ti alzi per andare a spargere terrore. Non importa, poi, quanta ne sottrai agli abitanti, umani e non, dei boschi e delle valli, e a tutte quelle persone, di numero molto superiore ai cacciatori, che amano passeggiare fuori città.
L’utilizzazione primaria della fauna selvatica, nel progetto della W.E., sarà alimentare. La fauna diventa fonte primaria di proteine animali; ed occorre sponsorizzarla affinché diventi alimento di massa. Se vi è una cosa che i consumi di massa non garantiscono è proprio la ‘sostenibilità’ ambientale. Un modo per differire il problema potrebbe essere l’estensione del concetto di ‘risorsa rinnovabile’ ad libitum: più vi sarà richiesta di ‘risorse’ selvatiche, più il sapere tecnico cercherà di accontentare questa richiesta.
Un altro aspetto messo in evidenza, nella W.E., è la riappacificazione tra ambientalisti e cacciatori: ai primi la sostenibilità, ai secondi Parchi e reddito. A cui si aggiungono, vero ménage à trois, gli agricoltori, i quali potranno trasformare il ‘problema’ fauna in ‘risorsa’. La pax oeconomica, vista la sua presunta sostenibilità, è siglata.
Penso, comunque, che andrebbe sfatato un mito: quello della contrapposizione tra cacciatori e ambientalisti. Questi ultimi infatti , generalmente, non si interessano ai singoli animali ma alle specie, quindi non hanno problemi con la caccia sportiva o di selezione in sé, ma ad alcuni suoi effetti come l’inquinamento da piombo causato delle pallottole, l’estinzione di specie, ecc., problematiche limitabili (ma non eliminabili!) con una pratica venatoria attenta e selettiva.

La W.E. è un format applicabile in tutto il pianeta e può occupare uno spazio indefinito. Sua priorità è ricavare un ‘utile sostenibile’ da ogni componente dello spazio naturale, e proprio per questo non ha limiti a priori: letteralmente tutto può diventare, laicamente, ‘risorsa’ come lupi e istrici, ora tutelati. Al che vorrei fare una provocazione: è possibile candidare nel progetto l’animale umano? Scientificamente e ‘laicamente’ ha tutto ciò che occorre: è una risorsa di proteine animali rinnovabile, iperabbondante e senza costi di produzione. Invece di seppellire corpi irrazionalmente, potremmo iniziare ad utilizzarli sostenibilmente. Nel Paleolitico è poi appurata l’antropofagia (es. la grotta di Muola-Guercy) quindi potremmo, in futuro, inserirci nelle risorse a tutti gli effetti (come rappresentato nel bel film dai fratelli Wachowski, Cloud Atlas, in cui il fine carriera delle cameriere-cloni è la macellazione, per divenire cibo proteico per l’insaziabile umanità).

La Natura è stata Selvaggia  per miliardi di anni. Negli ultimi 10’000, a seguito della rivoluzione neolitica (agricoltura e allevamento), Homo Sapiens si è stanzializzato e ha iniziato a considerare la Natura come altro da sé, qualcosa da addomesticare e sfruttare o da cui proteggersi. A seguito dell’industrializzazione la lontananza dalla Natura è aumentata. Nello stesso periodo è sorta però anche l’immagine della ‘Natura Selvaggia’, come terra di salvezza contro l’alienazione urbana e industriale.
La W.E. porta avanti l’immagine di una Natura come risorsa redditizia, sussumendola all’interno del paradigma economicista. Ciò che è rimasto della Natura Selvaggia diviene fabbrica di risorse da sfruttare, sotto l’ala protettiva del sapere tecnico.
Ma abbiamo proprio bisogno di questa nuova colonizzazione economicista dell’immaginario? Di una prospettiva volta ad eliminare ogni possibile Fuori dall’ordine economico umano? Non abbiamo forse più bisogno di rinselvatichire la nostra vita, chiusa sempre di più in un mondo completamente antropomorfo?

Il riduzionismo economico del mondo della vita è il problema principale e radicale del  programma Wildlife Economy. Nella nostra società, far entrare un’attività nella sfera economica significa benedirla. Il pensiero viene messo in disparte: i ‘problemi’, soprattutto se causati dall’uomo (es. ripopolamenti), diventano ‘risorsa’. Tutto sarà economicamente uniformato, quindi gestibile.
Ragni giunge a sostenere che, per salvare la fauna, occorre tradurla in risorsa economica. Senza prezzi l’uomo si perderebbe, non sapendo riconoscere più il valore delle cose. In verità, oggi si stanno diffondendo sempre più valori non economici ed utilitaristici, come quello della biodiversità e del rispetto verso la singolarità animale, che sono combattuti e osteggiati (anche dall’Autore!) poiché fuoriescono dai parametri valoriali dominanti, basati sul denaro, e criticano la postura padronale dell’antropocentrismo.

Per salvare la fauna (ma anche l’uomo), quindi, andrebbe ripensato completamente il nostro rapporto con il mondo, partendo da una seria autocritica che metta in mostra la nostra storia di specie, più demens che sapiens, attualmente vettore della Sesta Estinzione di massa, che però continua a credere più a concetti astratti che al terrore e alla sofferenza concreta di un animale.
Questa nuova storia ci aiuterebbe a passare dal sopra-vivere (vivere sopra agli altri) al con-vivere (vivere insieme agli altri). Ci serve urgentemente questa nuova prospettiva, la quale può imparare molto anche dal Paleolitico proprio come critica al dominio delirante di una razionalità univoca e omologante eletta a totem.
Rendere inoperoso il Panopticon economicista che ‘dall’alto’ pensa di vedere Tutto,  vedendo in verità sempre lo Stesso: risorse. Iniziare a percepire la parzialità del nostro punto di vista, non confondendo la mappa con il territorio, le parole con le cose. Fuoriuscire dal pensiero uniformante ed ingabbiante, pensiero morto che produce morte, a favore di un pensiero-ascolto che si lasci attraversare della vita. Più che chiedersi cosa fare, dovremmo innanzitutto domandarci cosa non fare, cosa lasciar stare.
Solo da questa prospettiva complessa che pone l’animale umano (con le sue particolarità) a fianco degli altri animali è possibile iniziare un discorso ‘laico’, cioè un discorso non calato dall’alto ma che parta dal basso, dalla finitezza e ignoranza del nostro sguardo.

La Grande Famiglia di cui facciamo parte, attualmente si sta decimando a causa dell’ignoranza umana. Solo in Italia sono a rischio di estinzione il 68% dei vertebrati terrestri, il 66% degli uccelli, il 64% dei mammiferi, il 76% degli anfibi e addirittura l'88% dei pesci d'acqua dolce. Tra le minacce principali vi sono la modifica degli habitat, il consumo di suolo, il bracconaggio e la caccia eccessiva.
Occorrono progetti che ci facciano scoprire un po’ del mistero in cui viviamo, che dicano basta allo sterminio (anche nella versione ‘sostenibile’), cercando di promuovere nuove vie, basate su un’ecologia non antropocentrica e sul rispetto, tendenziale, della singolarità animale. Più che della pace tra ambientalisti e cacciatori abbiamo seriamente bisogno della sospensione dell’ecocidio, che portiamo avanti da troppo tempo contro il resto del vivente.

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